La globalizzazione ci ha aiutati ad apprezzare la cucina, l’abbigliamento, la musica e l’arte proposta da “altri”. Malgrado ciò, in un mondo globale, è più che mai necessario apprendere e considerare anche le differenze e le specificità che separano tra loro le comunità che abitano gli oltre 200 paesi di questo pianeta.
Dolce & Gabbana ha sperimentato che al di là dei miti del “villaggio globale” o del “melting pot”, fare business in un paese non è immune dall’influenza espressa dalla sua cultura e dalle sue tradizioni.
I fatti sono ormai noti. D&G aveva programmato, a Shanghai una sfilata show, animata da cantanti, attori, ballerini per presentare la sua collezione. Per preparare tale evento sono stati realizzati alcuni spot nei quali una ragazza cinese cercava di mangiare alcuni piatti italiani, pizza, spaghetti e cannoli siciliani, utilizzando però i tipici bastoncini. D&G presumeva di aver fatto una cosa spiritosa per divertire la sua audience, stimolando un po’ di umorismo e di auto ironia.
Non lo avesse mai fatto. La “rete” ha reagito tempestivamente e con viralità criticando animosamente i contenuti degli spot, accusando D&G di aver solo evidenziato degli stereotipi offensivi del popolo cinese, con accuse anche di razzismo e sessismo.
Le conseguenze sono quasi drammatiche. La piattaforma Weibo, una delle più importanti in quel Paese, ha cancellato gli spot. Ma la bufera, partita dal “basso”, si è rinforzata quale un’onda crescente, sino ad invitare i potenziali clienti cinesi a boicottare D&G.
Da rammentare che il mercato cinese vale per D&G circa 1,3 miliardi di fatturato e cuba quasi il 70% delle sue esportazioni.
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